Nicolas Merli - Your Attention, Please - Recensioni - SENTIREASCOLTARE

2023-02-27 10:22:20 By : Ms. xie yun

A quanto mi risulta, fino a oggi sugli Afghan Whigs era stato pubblicato solo un libro, risalente al 2008 e peraltro dedicato al loro album più noto: si intitola (infatti) Gentleman, ne è autore Bob Gendron – giornalista e critico del Chicago Tribune – e non è mai stato tradotto in italiano. 

D’accordo, non stiamo parlando di una band che ha scosso l’immaginario collettivo al pari delle celebrità coeve: dell’infornata grunge a cui fu indebitamente – ma opportunamente, almeno dal punto di vista della notorietà – accomunata, fu una tessera significativa ma piuttosto anomala, poco allineata alle linee guida definite in quel di Seattle, persino scomoda per quanto riguarda la figura del suo frontman, che al tormento problematico degli antieroi in camicia di flanella preferiva stropicciare il vestito buono con un autodafé di demoni e perversioni. 

Il terzo album Congregation e il già citato Gentleman – usciti tra il ‘92 e il ‘93, tra la Sub Pop e la Elektra – costituiscono a mio parere un apice che non ha nulla da invidiare ai migliori titoli dell’epoca, detto che l’ibridazione tra black music e rock variamente hard li collocava su un piano espressivo come minimo peculiare. In altre parole e per farla breve: non c’era nulla del genere in circolazione. 

Va dato merito perciò a Nicolas Merli di avere colmato una lacuna che aveva dell’inspiegabile: Your Attention, Please è una biografia agile ed esaustiva, condotta col taglio essenziale e ficcante tipico del web – Merli è redattore per indie-rock.it e infinite-jest.it – ma dilatata fino a occupare con morbidezza 160 pagine. Che forse sono poche, considerata la statura della band, ma la sensazione è che dal punto di vista biografico non ci fosse molto da aggiungere, tenuto conto che il saggio si attiene strettamente al tema, evitando di uscire dal perimetro Afghan Whigs. Di fatto, il periodo di pausa dal 2001 al 2011 viene liquidato con poche righe, citando appena le pur significative avventure The Twilight Singers e The Gutter Twins, in effetti più emanazioni di un iperattivo Dulli che non propaggini degli Afghan. 

La sensazione in effetti è che sia giusto così: in fondo parliamo di quel tipo di band che riversa tutto nelle canzoni, nei dischi, negli artwork, nei concerti e al limite nei video. Sta tutto lì, nel manifestarsi sonoro come realtà potente e autonoma rispetto a una biografia che avrà senz’altro motivi di interesse ma che non sembra essenziale alla valutazione e interpretazione della proposta musicale.

Merli pennella bene il quadro storico, fa atterrare i protagonisti nella Cincinnati dei tardi 80s, sottolinea le filiazioni e le (cor)relazioni, soprattutto individua le caratteristiche che resero gli Afghan un fenomeno atipico rispetto a ciò che girava loro intorno. Vale a dire una sintesi “tra ciò che Dulli è, un rocker bianco germinato da Westerberg e dall’hardcore punk, un maschio alpha con un ego smisurato e un’idea per lo meno contorta del rapporto con l’altro sesso, e ciò a cui probabilmente vorrebbe appartenere, o per lo meno ciò che ha sempre guardato con ammirazione e da cui è sempre stato segretamente influenzato: la grande epopea del soul, con tutto il suo carico di sensualità e pathos”. 

Da ciò consegue un’altra differenza cruciale rispetto al grunge: se le band di Seattle volenti o meno incarnavano con musica, testi, atteggiamenti ed estetica le inquietudini di una generazione – la Generation X – in crisi col presente e angosciata dall’improvviso collasso del futuro, gli Afghan non si curavano granché di dare voce e forma a temi e problemi generazionali. Ogni loro canzone è un dramma incendiario – intriso di un immaginario torrido, più cinematografico che letterario o teatrale – che si consuma nel microcosmo emotivo, sentimentale e mentale del turbolento leader: come chiosa lucidamente Merli, “Greg è un Marchese de Sade postmoderno, vive la crisi del giovane uomo bianco borghese, ma la sua è una crisi privata, e guai a chi prova a entrarci senza il suo permesso”. 

Forse per questo la loro dimensione non ha mai saputo risolversi tra uno stato di culto – tenace e lusinghiero ma anche, presumo, frustrante – e la relativa popolarità recata in dote dal galleggiare sulla marea grunge. Di contro, proprio il fare perno su temi svincolati dalla contingenza, proprio quello spingere la lama nei conflitti archetipici tra i sessi, sulla linea sottile che separa l’ossessione dalla passione, ha permesso alle loro canzoni di non pagare dazio al tempo, di mantenere intatti negli anni il loro impatto, il loro senso.

Oltretutto Merli dimostra di saper ben modulare il taglio da recensore sulla dimensione del saggio, soffermandosi sugli aspetti prettamente musicali col giusto dosaggio di trasporto e sguardo analitico, un’angolazione che nelle biografie talvolta viene colpevolmente tralasciato. 

Tirate le somme, lettura consigliata.

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